Giorgio William Vizzardelli, il pazzo di Sarzana

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serkil
view post Posted on 4/2/2013, 16:25




Giorgio William Vizzardelli nasce nel 1922 a Francavilla al Mare.
Era figlio di Guido Vizzardelli, direttore del Registro di Sarzana, un uomo molto severo nell’educazione del figlio. Molto spesso faceva ricorso anche alle punizioni corporali, sviluppando nel ragazzo una forte conflittualità nei confronti della famiglia.
 Da bambino si trasferisce con la famiglia a Senigallia, dove sopravvive a un forte terremoto, anche se ne rimane scioccato e accuserà per tutta la vita un mal di testa cronico.
È un ragazzo molto gracile fisicamente, e non ha particolari amicizie femminili.
A scuola è molto svogliato, non gli piace studiare, è spesso deriso e picchiato dal maestro. Non studia, ma è convinto di essere un genio. Passa le sue giornate ubriacandosi e leggendo le gesta dei più famosi banditi americani, primo fra tutti Al Capone, che era il suo idolo. Fin da piccolo nutriva un’attrazione per le armi da fuoco, tanto che già all’età di 6 anni inizia ad allenarsi con la pistola.
Il suo primo omicidio avviene il 4 gennaio 1937, quando, a soli 14 anni, uccide Don Umberto Bernardelli, il rettore del collegio Casa delle Missioni, dove Giorgio frequenta la scuola di avviamento, colpevole di averlo schiaffeggiato qualche giorno prima.

Don Umberto è nel suo ufficio a sbrigare delle pratiche, quando una figura scura si avvicina alla sua scrivania. Il prete, vedendo l’uomo con un cappello scuro e una sciarpa a coprire il viso, pensa a una rapina e tira fuori dalla scrivania l’ingente somma di cinquantamila lire.
Ma all’uomo non interessano i soldi, e gli spara in pieno petto tre colpi di pistola che lo uccidono all’istante. Sentendo i colpi di pistola due collegiali di quindici anni accorrono e il killer in fuga spara contro uno di loro. Leonardo Bassano viene ferito di striscio ad un fianco, mentre Alfredo Collini rimane incolume.
Durante la fuga, però, incrocia anche Frate Andrea Bruno, il guardiano del collegio, che si trova come al solito in portineria. Frate Andrea cerca di fermarlo, ma riceve due colpi di pistola che lo fanno cadere. Mentre viene soccorso, il frate dice di aver riconosciuto l’assassino, ma di non ricordare il nome. Muore durante il trasporto in ospedale.
Iniziano subito le indagini, ma la polizia di Sarzana si trova in difficoltà soprattutto per la morte del custode Don Andrea.
Invece, Padre Bernardelli è un frate molto chiacchierato. È conosciuto in paese, perché sembra avesse una doppia vita. Sacerdote apparentemente irreprensibile, ma che non disdegna la compagnia di alcune donne, anche sposate. Quindi seguirono anche la pista di un eventuale marito tradito, che aveva dovuto freddare anche Don Andrea perché era diventato un testimone scomodo.
Inizialmente, per questi due omicidi, viene arrestato un ragazzo, Vincenzo Montepagani, che corrisponde alla descrizione dell’uomo fatta dai testimoni oculari. Era uno studente d’ingegneria di 24 anni, dal carattere molto introverso che aveva passato il pomeriggio insieme a don Umberto. Faceva ripetizioni al collegio, ma don Umberto lo aveva sgridato più di una volta.
Non riuscendo a fornire un alibi dimostrabile, aveva dichiarato di essere tornato a casa presto e di essere rimasto lì tutta la sera, fu arrestato per il duplice omicidio. Dopo diciotto mesi di detenzione, viene assolto al processo, e risarcito personalmente da Benito Mussolini con 25 mila lire. Il colpevole, quindi, è ancora a piede libero.
Intanto, il 20 agosto 1938, in un torrente in località Ghiaia Falcinello, vengono ritrovati altri due cadaveri; Livio Delfini, 20 anni, di professione barbiere, e Bruno Veneziani, 35 anni, tassista. Entrambi riportano ferite da armi da fuoco, ma provenienti da pistole diverse. Il taxi si trova lì vicino, crivellato di colpi.
L’ultimo omicidio avviene il 29 dicembre 1938. Quella mattina, Guido Vizzardelli, chiama la polizia terrorizzato. Entrando nel suo ufficio, come tutte le mattine, ha trovato Giuseppe Bernardini, 75 anni, custode dell’Ufficio del Registro con un’ascia piantata in mezzo alla fronte e in un lago di sangue. La cassaforte è aperta, ma non è scassinata, e mancano dei soldi.
La cassaforte non presenta segni di effrazione, questo induce subito gli investigatori a pensare che l’assassino dovesse necessariamente essere in possesso delle chiavi. Interrogarono immediatamente Guido Vizzardelli, il direttore, e scoprono che la sera prima aveva presentato una denuncia di scomparsa per il figlio Giorgio, ma poi l’aveva ritirata. In realtà Giorgio era solo rientrato molto tardi. Scoprono inoltre che il ragazzo aveva l’hobby della distillazione di liquori e delle armi, e che frequentava il collegio dove erano stati uccisi don Umberto e don Andrea.
Interrogano anche alcuni ragazzi del collegio che testimoniano che Giorgio possiede un’ascia.
Gli investigatori decidono, a questo punto di interrogare il sedicenne, che però, inizialmente, nega tutto. Poi comincia a fare ammissioni sul delitto del custode. Infine confessa tutto, anche gli omicidi precedenti.
Ammette di aver ucciso don Umberto perché lo aveva preso incolpato di aver bruciato delle mappe geografiche e sporcato dei ritratti del re e del duce e lo aveva schiaffeggiato davanti ai compagni. Così aveva scaricato su di lui tutto l’odio che nutriva per la scuola, e gli insegnanti. Invece don Andrea è stato ucciso per caso; si trovava sulla sua via di fuga.
Il barbiere lo ricattava perché aveva scoperto, in qualche modo, che aveva ucciso i due frati. Gli aveva dato appuntamento fuori città, e l’aveva ucciso, insieme al tassista che lo aveva accompagnato.
L’omicidio del custode dell’ufficio del registro, invece, ha altre motivazioni e anche l’arma usata è diversa dai primi omicidi. Aveva deciso di scappare in America e per farlo aveva bisogno di soldi, da qui l’idea della rapina, approfittando delle chiavi in possesso del padre.
Non prova nessun rimorso per quello che ha fatto, è totalmente incapace di provare sentimenti positivi.
Si copre il viso durante gli omicidi ma subito dopo torna a comportarsi come se non fosse successo niente. Soffre di complessi d’inferiorità e la vera motivazione dei suoi omicidi, era dimostrare la sua forza, dimostrare di essere un uomo.
Il processo, che si celebra nel Settembre 1940, dura pochi giorni; viene condannato all’ergastolo e non alla pena di morte, solo perché è minorenne.
In prigione mantiene un comportamento irreprensibile, ricomincia a studiare e ottiene la maturità classica. Impara il russo, e incomincia a tradurre Shakespeare; gli altri detenuti lo chiamano “il filosofo”.
Nel 1946 si ammala di tubercolosi e nello stesso anno la madre muore d’infarto, il padre invece muore nel 1965.
Il 29 luglio 1968, dopo ventotto anni passati tra carcere e manicomio, il Presidente della Repubblica Saragat gli concede la grazia. Va subito a vivere con la sorella a Carrara, dove lei è insegnante di lettere. Lei lo accoglie e lo cura amorevolmente.
Ma il 12 agosto 1973, quindici giorni dopo la cessazione della libertà vigilata, Giorgio Vizzardelli si suicida nel bagno. Si taglia la gola e un braccio e si lascia morire dissanguato. Diceva sempre che la prigione era la sua vita e che fuori si sentiva a disagio, non riusciva ad integrarsi nella società.


Alessandra
 
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